L'ultima volta che vidi Clizia mi parlò di fughe, di assassini, di salti improbabili. Alla fine voleva solo fuggire da sé stessa, da come si vedeva, da come la vedevano gli altri o, forse, dal suo modo di vedere il mondo. Era stanca Clizia. Erano lontani, se mai ci fossero stati, i suoi giorni felici. Avrebbe voluto solo sedersi vicino al riverbero delle luci e restare lì. Guardare le ombre e luci giocare nella notte. Sdraiarsi nel rumore del mondo e capire che in tutto c'è una sorta di melodia. Ma non poteva. Per lei, da troppo tempo, il buio era solo buio e la luce sempre e solo accecante. E i rumori era sono rumori, fastidiosi rumori. Ogni giorno Clizia affogava sè stessa nei bicchieri dei bar, cercando di affogare i suoi pensieri. Clizia, ormai, aveva imparato a morire tutti i giorni per rinascere sempre più debole e indifesa di prima. Con un chiodo arrugginito si incise sul ventre parole di speranza e, la notte stessa, salì su un tetto per guardare la città. Cercò di osservare le stelle con occhi nuovi. Per un attimo ci riuscì. Arrivò l'alba e le nascenti luci le illuminarono il viso e il ventre sfregiato. Si alzò, avvicinandosi al parapetto, per vedere meglio il sole sorgere. E quando tutta la città fu accarezzata dal sole mattutino, Clizia sorridendo saltò. (Tetti di Roma, Renato Guttuso, 1942)
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mercoledì 25 febbraio 2009
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